Alternanza scuola-lavoro tra favorevoli e contrari. Ma di sicuro è una riforma raffazzonata.
Di Salvatore Leo e Ettore Paris
Accade il 26 febbraio 2016: la Provincia emette una delibera che recepisce quanto previsto dalla “Buona Scuola” – la nota legge nazionale di riforma scolastica, a forte impronta renziana, in materia di stage curriculari per i ragazzi di tutte le scuole secondarie, licei compresi.
Scoppia il putiferio: più di un insegnante contesta aspramente, al Liceo “Da Vinci” il Collegio Docenti addirittura blocca l’adozione del progetto, mentre i sindacati approvano la proposta. Contrari la UIL ed alcuni ex-dirigenti scolastici. Ma cosa prevede realmente la legge e che tipo di impatto avrà sull’organizzazione della didattica?
Come funziona
Dal punto di vista puramente didattico, al di là delle opinioni personali, l’idea dell’alternanza scuola-lavoro è una novità nel panorama scolastico italiano e trentino. Secondo la delibera, uno studente liceale deve svolgere obbligatoriamente 200 ore nel corso del triennio finale, in attività di alternanza scuola-lavoro, mentre un collega delle scuole tecniche e professionali ne dovrà affrontare 400.
Quindi una media di 67 ore per anno nei licei, e 133 negli istituti tecnici. In pratica gli studenti del triennio devono vivere un’esperienza a contatto col mondo del lavoro e le scuole devono creare queste opportunità, attivando convenzioni con aziende private o enti pubblici.
Un’esperienza simile, su scala più ridotta, la Provincia l’aveva già avviata nel 2014, con tirocini estivi attuati su domanda dello studente e quindi volontari, e retribuiti (paga mamma Provincia) con 70 euro settimanali. Lo scorso anno gli studenti coinvolti furono 1900.
L’alternanza scuola-lavoro invece, che può anche svolgersi in estate, è gratuita e soprattutto obbligatoria, e anche soggetta a valutazione finale, alla maturità. Coinvolge quindi non dei volontari, ma la totalità delle classi e degli studenti, comportando quindi una certa complessità organizzativa.
Come ci spiega la dirigente del Liceo “Rosmini” di Trento, Matilde Carollo, “la scuola predispone l’intervento attraverso un progetto generale del Consiglio di Istituto, poi spetta al Consiglio di Classe organizzare le attività esterne e interne, decidere i tempi e i modi delle collaborazioni, individuare i tutor di classe, mentre il singolo studente decide a quale attività partecipare”.
Dall’altra parte ci sono le aziende che, contattate da un referente d’Istituto, aderiscono alle proposte promosse dai Consigli di Classe e individuano un tutor aziendale che entrerà in relazione con il tutor di classe per gestire le attività.
Gli studenti, a quel punto, partecipano alle attività: potranno recarsi presso i locali dell’azienda e svolgere ciò che il progetto prevede; per fare alcuni esempi, sarà possibile coadiuvare l’amministrazione nelle sue funzioni, seguire riunioni, sperimentare software gestionali, collaborare allo sviluppo di strategie di marketing. L’idea di fondo è che da un lato si possano sperimentare sul campo le competenze acquisite a scuola, dall’altro se ne possano assorbire di nuove.
“Ciò non significa – continua Carollo – che tutte le ore debbano essere svolte in esterno: parte del tempo previsto può essere impiegato in classe per progettare le collaborazioni o per assistere ad interventi di esperti. È possibile infatti anche svolgere attività di impresa simulata, in cui le aziende o clienti esterni richiedono commesse reali ai ragazzi, che le elaborano in classe”.
Un liceo artistico, ad esempio, potrebbe prestarsi a svolgere progetti grafici di marketing (logo aziendale, grafiche, cartelloni pubblicitari) o restaurare un mobile di un privato. Una classe di Geometri potrebbe aiutare uno studio di ingegneria nello svolgere i rilievi di un terreno per un progetto futuro, e via così.
“Al termine delle attività – precisa la dirigente del “Rosmini” – è previsto un momento per tirare le somme: la rielaborazione in classe dell’esperienza dovrà produrre una forma di rendicontazione dell’attività che poi diventerà la base di quanto verrà presentato all’esame di Stato”. Sì, perché, trattandosi di attività curriculare, ovviamente potrà essere oggetto di discussione in sede di esame di Stato, anche se ad oggi non ne sono state definite le modalità. Del resto ci sono ancora due anni di tempo, visto che i primi studenti interessati alla novità saranno quelli che oggi sono in classe terza e che termineranno la secondaria superiore nell’anno scolastico 2017-18.
Gli oppositori
Come si diceva, il recepimento da parte della Provincia della normativa nazionale ha aperto un dibattito acceso. Una delle questioni più discusse è se le attività siano effettivamente utili e spendibili nel futuro lavorativo dello studente.
Per gli Istituti Tecnici la risposta è abbastanza intuitiva: dovendo formare geometri, ragionieri e periti industriali, per dirne alcuni, si può facilmente dedurre che le attività di alternanza scuola-lavoro permetteranno agli studenti di sperimentare prima del tempo alcuni aspetti del lavoro che potranno scegliere di svolgere. Si potranno spendere le competenze acquisite in classe presso l’azienda ospitante. Si avrà anche la possibilità di essere guidati da chi quel lavoro già lo fa da tempo, rubando qualche trucco del mestiere.
Per i licei, invece, il collegamento fra lavoro e formazione non è così diretto: i piani di studio liceali hanno una struttura prevalentemente teorica, volta alla crescita più culturale che professionale degli studenti, tanto che le conoscenze e le competenze che vengono impartite quasi mai sono direttamente collegate ad una qualche attività lavorativa. Diventa complesso, quindi, capire su quali basi dovrebbero essere strutturate le attività di alternanza scuola-lavoro.
Proprio su questo aspetto sono divampate le polemiche. Alcuni insegnanti liceali ritengono che questi lavori in azienda siano praticamente inutili dal punto di vista didattico. Al liceo “Da Vinci” di Trento un gruppo di 72 insegnanti (vedi intervista “Le ragioni del no”), al termine di un Collegio Docenti, emette un documento di dissenso: “Esprimiamo con forza la nostra contrarietà rispetto alla ratio ed all’intero impianto della legge e quindi anche al suo recepimento e rifiutiamo ogni forma di collaborazione alla sua attuazione”.
Un’insegnante di quello stesso istituto, Eliana Agata Marchese, in una lettera al quotidiano l’Adige del 4 marzo, spiega meglio la sua posizione e quella dei colleghi. Secondo Marchese, “i nostri ragazzi, impegnati a far fotocopie o a riordinare archivi inutili, avranno maggiori difficoltà a superare un test di Medicina: questa è la realtà. […] Chi si iscrive a una scuola superiore deve formarsi come individuo, deve imparare ad apprendere, non deve perder tempo con lavoretti poco qualificati proprio negli anni in cui il suo cervello è più elastico”. Secondo gli oppositori della proposta, dunque, non ci sarebbe nessun vantaggio culturale o professionale, ma si sta costringendo i ragazzi ad una perdita di tempo istituzionalizzata.
I fautori
Diversa è l’opinione dei fautori dell’iniziativa: ogni studente non può più essere considerato un puro contenitore di conoscenze. Va visto come un cittadino che, oltre alle competenze specifiche nelle materie trattate, deve possedere quelle competenze trasversali e di cittadinanza che facilitino la sua integrazione nelle comunità e nei contesti organizzativi di cui farà parte nel corso della vita. In parole semplici, una persona, a parte le cose che conosce e che sa fare, deve saper anche gestire delle relazioni con le persone con cui lavora, rispettare tempi di consegna, rendicontare le proprie attività e via dicendo. E più in generale, un cittadino non deve solo conoscere il mondo dello studio, ma anche quello del lavoro.
Certo, a indisporre nei confronti del progetto i docenti (e non solo loro) è che esso può apparire una ricaduta della finora egemone cultura dell’impresa, per cui tutto quello che è azienda e mercato è positivo, il resto è parassitismo.
“Capisco – risponde Andrea Grosselli, della segreteria della Cgil – ma reagire dicendo che l’impresa stia fuori dalla scuola, significa accettare la frattura scuola/lavoro, cultura/produzione, mentre la scuola potrebbe insegnare agli studenti a fare i buoni imprenditori, e così qualificare il sistema sociale, non limitarsi a creare nuovi studiosi”.
“Un avvicinamento al mondo del lavoro, se non è sbilanciato, non può che essere positivo – aggiunge la prof. Sara Ianeselli, referente al “Prati” proprio per il progetto alternanza – E in quanto ai timori sulla cultura dell’impresa unico riferimento valoriale, non sono infondati: ma si tratta di costruire progetti funzionali non a questa cultura, ma al percorso di studi”.
E qui si arriva al punto. Riuscire a costruire progetti adeguati, seguirli, controllarli, valutarli. Al Liceo Prati, per esempio, si è scelto, soprattutto in questa fase di avvio, di dar vita ad attività molto vicine alla realtà di un liceo classico.
“Il nostro obiettivo è mettere in pratica le competenze acquisite a scuola – ci dice Ianeselli – Infatti, oltre a svolgere il tirocinio nell’azienda, è possibile anche il project work, ossia prendere commissioni da parte dell’ente esterno da eseguire anche internamente. Facciamo un esempio: un museo commissiona delle guide. Lo studente prende in carico l’attività, è lui che la svolge. È supervisionato, ma è operativo. L’ente esterno, assieme al tutor interno, valuta il prodotto finale, che non deve per forza essere perfetto. Magari, poi, può essere utilizzato, con dovuti aggiustamenti, ma questo non è in realtà fondamentale: la cosa importante è che si sia realizzato un certo processo, più che il prodotto finale. Ad esempio, abbiamo già realizzato un progetto con il Fai in cui gli studenti hanno preparato una guida che poi usano per fare da ciceroni per i visitatori dei vari siti gestiti dall’ente”.
Gli aspetti critici
Ora è chiaro che organizzare tutto questo non è semplice. E i punti critici si sprecano.
Secondo molti degli attori coinvolti, fautori o oppositori, ci sono almeno un paio di questioni su cui si focalizza il dibattito. Il primo è il controllo delle attività: chi garantisce che i piani predisposti vengano poi rispettati, e non vi siano studenti che vengano invece dirottati a far fotocopie ed archiviazione dei documenti?
Sulla base di quanto abbiamo già detto, l’esistenza di un progetto condiviso tra scuola ed azienda, già di per sé sarebbe un forte deterrente, con i tutor di classe che possono sempre andare a verificare quanto viene svolto in azienda, individuando (e risolvendo) eventuali problemi. Secondo i fautori, quindi, il monitoraggio costante degli insegnanti tutor sulle attività sarebbe a garanzia del corretto svolgimento delle attività. Gli oppositori, dal canto loro, ritengono che ciò non sia realistico.
Il secondo aspetto è la ricettività del tessuto economico del territorio: il Trentino ha un substrato economico abbastanza grande da poter accettare il notevole numero di studenti che dovranno essere ospitati in azienda per le attività?
Gli studenti coinvolti nell’alternanza scuola-lavoro sono circa 18.500 (triennio delle superiori e formazione professionale). Al contempo le imprese iscritte alla Camera di Commercio sono oltre 51.000. Il punto è: quante di queste potranno essere coinvolte in un progetto che vede una persona estranea presente in azienda?
Per aumentare la capacità recettiva, la Provincia ha invitato enti a vario titolo, quali ad esempio gli Ordini professionali, affinché incentivino i professionisti a partecipare al progetto e ad accogliere gli studenti. E anche l’Università può essere un buon bacino recettivo; secondo Grosselli “si potrebbe allargare anche al mondo del volontariato, cosa oggi non prevista; tutte le indagini confermano la forte crescita di competenze dei ragazzi che vi lavorano”. Basterà?
Il fatto è che tutto questo è letteralmente piombato addosso alla scuola, in corso d’anno scolastico, senza alcuna preparazione, senza alcuna gradualità: gli Istituti della Provincia sono stati costretti ad un immenso lavoro riorganizzativo, comprensivo anche di un non facile riorientamento culturale al proprio interno, da attuare in pochi mesi. Le date parlano chiaro: “La legge nazionale è del 13 luglio scorso, la Provincia ha preso tempo fino a fine febbraio per licenziare la sua delibera: e ora in uno-due mesi le scuole dovrebbero organizzare un terzo delle 200-400 ore? È semplicemente impossibile” – esclama Il segretario della UIL Pietro Di Fiore. Solo qualche Istituto che già precedentemente aveva attivato percorsi di alternanza scuola-lavoro (come il Liceo “Rosmini” di Trento e le scuole professionali) è stato in grado di gestire l’emergenza lavorando in anticipo sulla politica..
Ma anche chi è favorevole all’alternanza lamenta la deplorevole fretta, l’inevitabile approssimazione con cui si dovranno fare le cose: “È risultata una cosa nuova, calata dall’alto, senza preparazione, il nostro Collegio Docenti non ha apprezzato questo ritardo delle istituzioni che a fine febbraio hanno scaricato su di noi il compito di organizzare entro il corrente anno scolastico una tale novità – afferma Sara Ianeselli – Siamo stati costretti a partire senza linee guida, sapevamo solo che dovevamo partire. Ora sappiamo anche che dovremo partire senza fondi, visto che per quest’anno la PAT non ha finanziato questo capitolo. Nel nostro Istituto non è sorta una protesta organizzata, ma i malumori ci sono, e fondati”.
Insomma la politica, con un dilettantismo disarmante ed un ritardo clamoroso, ha trovato il modo di mettere i bastoni tra le ruote ad un’iniziativa fortemente innovativa. “Molto dipenderà da come i due tutor, quello della scuola e quello in azienda, riusciranno a garantire un effettivo percorso formativo – afferma Grosselli – Se ciò non avviene efficacemente, si rischia la deriva burocratica: le scuole che fanno tanto per fare, le imprese che utilizzano mera manovalanza, costringendo gli studenti ad attività senza alcuna valenza formativa”.
Speriamo di no.
Approfondimenti
L’esperienza del Liceo Prati (link)
Alternanza Scuola Lavoro, un deja-vu (link)
Le ragioni del no (link)